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05 2002

Una macchina da guerra contro l'Impero. Sul precario nomadismo della VolxTheaterKarawane

Gerald Raunig

Traduzione: Sandro Armezzani

Nell'ambito delle proteste contro il reazionario governo austriaco[1], tra il 1999 e il 2000 si sono formati numerosi gruppi artistici di opposizione[2], che in un vasto contesto - che va dalla Guerriglia Comunicativa alla Controinformazione - ha portato a termine un gran numero di azioni e interventi[3]. Di questa colorata e iperattiva moltitudine già dopo alcuni mesi non era rimasto comunque che ben poco. Ciò non va in ogni caso valutato negativamente: in questo caso la parola magica è trasformazione. Così come per le opposizioni del 2000, che non nacquero dal nulla dato che si rifacevano alla scena della Interventions­kunst (Arte di Intervento) degli anni '90[4], si continuò ad usare, sebbene in altri contesti, le esperienze dei soggetti e le strutture del 2000. Se non ha più senso attaccare il radicale populismo della destra sul piano nazionale, gli attivismi artistici si concentrano sempre più su altri obiettivi all'interno della protesta globale: contro i confini e per i diritti dei migranti[5].

Sembra che qui, nel contesto del movimento di protesta globale, le prassi artistico-politiche si lascino definitivamente alle loro spalle la dicotomia tra Arte e Attivismo. Gli attivisti non cercano di guadagnarsi dei punti sul piano artistico o di operare verso qualsiasi effetti di distinzione. Tuttavia lavorano con metodi e strategie che vengono rubati alla storia dell'arte e/o applicati spesso nelle attuali prassi artistiche. Le azioni stesse determinano un nuovo terreno che non è parte esclusiva né dell'arte né della politica in senso stretto.

Su questo nuovo terreno le nuove prassi non possono essere analizzate o criticate con le vecchie categorie come Specificità del Sito, Critica alle Istituzioni, Interazione/Partecipazione o con le ancor più vecchie categorie di Autore, Aura e Opera d'arte. Occorre piuttosto partire dalle prassi stesse se vogliamo formulare nuove categorie in grado di cogliere adeguatamente la loro specificità. Nel prosieguo si tenterà di definire queste categorie grazie all'ausilio di un esempio e di tre concetti, i quali – in conformità alle suddette prassi - saranno piuttosto presi in prestito dalla teoria politica che dall'estetica.

Ne è un esempio la VolxTheaterKarawane (Carovana del Teatro Popolare): preparata all'inizio del 2001 nel corso di lunghe discussioni virtuali e reali, partita a giugno da Vienna, con azioni dimostrative alla frontiera di Nickelsdorf, nel bel mezzo delle proteste contro il summit del WEF (World Economic Forum) a Salisburgo, presente al bordercamp di Lendava (Croazia/Ungheria), davanti ad un Centro di Permanenza Temporanea a Lubiana e infine all'interno delle manifestazioni del G8 di Genova, al termine del quale la Carovana fu messa agli arresti per quattro settimane dalla polizia italiana[6].

I tre concetti sono stati presi dall'arsenale di Gilles Deleuze e Felix Guattari: nomadismo, macchina da guerra e micropolitica delle frontiere.

Al giorno d'oggi la figura del nomade ha assunto un carattere ambiguo. Negli anni '80 molti gruppi, come i surfisti, i musicisti Tecno, gli artisti della Rete si erano appropriati indebitamente del concetto di nomadismo di Deleuze/Guattari riconoscendosi in esso e vedendovi una benvenuta e fiorita metafora delle loro attività. Contro tali inni alla libertà e al flusso o alla definitiva democratizzazione attraverso Internet, il concetto va tuttavia difeso nel suo contesto deleuziano: il nomadismo è innanzitutto precario, poi offensivo, e infine di frontiera.

Il nomadico è quindi precarietà, qualcosa che esiste solo in quanto revocabile, esposto al continuo fallimento o, espresso in maniera più elegante, esso è la differenza tra il fine e i suoi effetti. Precarietà e agire in contesti precari è condizione del nomadico.

La precarietà nomadica è ben descrivibile sulla base della lotta della Carovana del Teatro Popolare per l'appropriata o meglio con l'unica forma possibile di organizzazione: il collettivo. L'esperienza delle pianificazioni collettive all'interno di assemblee interminabili e delle azioni collettive ha dimostrato che queste comportano implicitamente l'esplosione del collettivo. Per di più, con l'intenzione di non limitare i partecipanti della Carovana all'ambito viennese o austriaco, ma di trasnazionalizzare il più possibile il progetto, si è aggiunta un'altra difficoltà: la molteplicità delle lingue. Il terzo e più importante aspetto nel contesto del tema della precarietà consiste tuttavia nella natura della Carovana stessa: il movimento nomadico produce precarietà, perché il collettivo – in contrasto del resto con l'idea tradizionale del nomadismo – percorre dei sentieri sconosciuti, giunge in luoghi del tutto ignoti e qui è poi costretto a prendere decisioni che – senza rendersene conto - semplificano al massimo la complessità: la Carovana del Teatro Popolare ha dovuto continuamente lavorare, in quanto collettivo in movimento, alla gestione di questa precarietà.

A partire dalla fine degli anni '90 abbiamo assistito ad un rinascimento del nomadico, concetto-chiave anche all'interno dell'Impero[7] di Michael Hardt e Antonio Negri. Quando la figura del nomadico riappare in un contesto esplicitamente politico, essa assume indubbiamente un'altra valenza rispetto a quella avuta nelle false interpretazioni degli anni '80. Comunque, nella misura in cui nell'Impero gli spostamenti degli intellettuali viaggianti e dei rifugiati politici rientrano nel concetto di nomadismo, gli autori tendono ad una integrazione concettuale tra migranti volontari e forzati. Ciò porta inevitabilmente a sovrastimare enormemente i soggetti della migrazione che vengono così innalzati al ruolo di massimi oppositori all'onnipotenza dell' "Impero".

In Deleuze/Guattari invece alla linea molare del potere si contrappongono due linee: la linea molecolare o linea dei migranti, e la linea di fuga, di rottura o linea nomade[8]. Ciò risponde alla necessaria differenziazione tra la migrazione forzata da un lato - la fuga da un luogo all'altro che aspira ad una nuova sedentarietà - e l'offensiva delle prassi nomadi dall'altro. La linea dei migranti collega due punti, va dall'uno all'altro, dalla Deterritorializzazione alla Riterritorializzazione. La linea nomade invece è una linea di fuga che, passando attraverso i punti, imprime ai movimenti di deterritorializzazione una torrenziale accelerazione che non ha niente a che vedere col concetto tradizionale di fuga. Fuggire, certo, ma nella fuga cercare un'arma.

La caratteristica di questa linea nomadica, di questa linea di fuga, è l'offensiva. Ma cosa può significare offensiva in un mondo, che secondo Deleuze/Guattari e Hardt/Negri minaccia di sprofondare in un unico luogo comune che ingloba tutto: il potere è ovunque e al contempo da nessuna parte. I suoi meccanismi funzionano senza centro e senza guida. Una risposta a questa situazione in cui un "fuori" del Potere appare impensabile questi autori L'hanno data soprattutto nell'Impero: se i meccanismi del potere funzionano senza centro e senza guida, allora dovrebbe essere possibile attaccarli da un luogo e un contesto locale qualsiasi[9].

Per quanto illuminante e attraente possa apparire questa tesi, essa rimane comunque vaga e nebulosa fintanto che non si chiarisce chi o cosa debba essere attaccato. Se l' "essere contro a partire da un luogo qualsiasi" possa sembrare doppiamente coerente – cioè come possibilità di essere-contro da un luogo qualsiasi e come necessità di essere-contro in un luogo qualsiasi – ci sono luoghi però che rivendicano maggiormente rispetto ad altri un tale "essere-contro". E questi luoghi devono essere cercati, scoperti e attaccati, essenzialmente in contrasto con la formula deleuziana secondo cui il nomade è colui che propriamente non si muove[10].

Il viaggio intensivo sul posto, questo punto di contatto tra Kant e Deleuze ha fatto il suo tempo. La leggendaria sindrome "da pantofolaio" di Kant che non volle mai muoversi da Königsberg e l'insistenza di Delueze sull'assenza di movimento del nomade, le ritroviamo nella più normale e tipica quotidianità dei nostri giorni. Ed è a partire da essa che occorre opporre ai meccanismi di controllo della società e dell'informazione delle prassi che, esattamente come i flussi di capitale deterritorializzato, non si lascino fissare e collocare in un luogo preciso, ma che a differenza di questi ultimi però, creano continuamente incontrollate ed auto-determinate linee di fuga. Qui ci muoviamo già in zone di confine per interventi artistico-politici nel quadro delle proteste globali, con il loro affinamento di azioni spontanee, gli attacchi tattici e il rapido adeguamento a nuove situazioni, con le loro linee di fuga nel e attraverso lo spazio nomade.

Anche la Carovana del Teatro Popolare agisce su una linea di fuga, attacca, è offensiva, in breve: è una macchina da guerra nel senso di Deleuze. Questo non significa in alcun modo ascriverle una particolare forma di violenza. Al contrario, la macchina da guerra va al di là dei discorsi di violenza e terrore; essa è proprio quella macchina che entra in scena contro la violenza dell'apparato statale e l'ordine della rappresentazione. Di contro l'apparato statale tenta di piegare il non-rappresentabile al potere della rappresentazione, come ha fatto con la Carovana trasformandola ad esempio in Black Block. È proprio a questi meccanismi della rappresentazione che si oppone la macchina da guerra o, nelle parole di Hardt e Negri, il militante che riscopre così un'attività costituente, ma non rappresentativa[11].

Quando è in gioco la localizzazione di questi luoghi di potere che si sottraggono alla visibilità, il confine viene ad assumere una importante funzione. Con ciò non si intende in alcun modo il confine in senso metaforico, bensì i confini concreti come – a seconda del punto di vista – quelli tra gli Stati nazionali o quelli interni dell'Impero stesso; o altre linee di confine dell'apparato statale come le linee di Polizia che vengono spezzate dalle Tute Bianche, dai Pink-Silver Blocks o, in Austria, dalla Performig Resistance[12].

Ai margini del border camp di Lendava la Carovana ha verificato, per mezzo soprattutto del Teatro invisibile e dell'Irritazione, lo spazio della "terra di nessuno" tra le due frontiere. Nel corso di questa azione, sul ponte nella "terra di nessuno", tra il confine ungherese e quello croato, gli attivisti - vestiti di tute arancioni e uniformi delle U-No – hanno eretto un'altra stazione di confine, fermato le automobili e distribuito ai conducenti dei passaporti "No-Border" e dei volantini. Qui non si trattava soprattutto di attraversare, spezzare, o abbattere i confini, come lo slogan "No Border" utilizzato dalla Carovana sembra suggerire, ma piuttosto del suo apparente opposto: erigere delle nuove frontiere per opporre a quelle assolute degli Stati nazionali uno spazio fluttuante e nomadico all'interno della "terra di nessuno"[13].

Con simili forme di "micropolitica della frontiera" (Guattari) le varie prassi abbandonano, nel contesto delle proteste globali, la vaga formula di un "verticale attacco ai centri di potere virtuali" supposti ovunque e da nessuna parte. Qui si tratta soprattutto di rendere visibile, di attaccare concretamente la virtualità, di spezzare quelle brutali frontiere e, al contempo, di mettere alla prova queste forme di organizzazione sperimentali e collettive. Questo è ciò che caratterizza la macchina da guerra: l'attacco all'apparato statale è legato alla continua ricerca di alternative o – ancora secondo le parole di Hardt/Negri – resistenza, insurrezione e potere costituente si fondono in un unico processo.

 




[2] Vedi: http://www.gettoattack.net/, http://www.volkstanz.net/, performing resistance, ecc.

[3] Vedi: Gerald Raunig, Wien Feber Null. Eine Ästhetik des Widerstands, Vienna 2000

[4] Vedi: Gerald Raunig, Charon. Eine Ästhetik der Grenzüberschreitung, Vienna 1999; Holger Kube Ventura, Politische Kunst Begriffe in den 1990er Jahren im deutschsprachigen Raum, Vienna 2002

[7] Vedi: Michael Hardt, Antonio Negri, Empire. Die neue Weltordnung, Frankfurt/New York 2002, in particolare le pp. 222-226

[8] Vedi: Gilles Deleuze / Clarie Parnet, Dialoge, Frankfurt/Main 1980, p. 147 e seguenti.

[9] Vedi: Gilles Deleuze / Félix Guattari, Tausend Plateaus, Berlin 1992, S. 583; Michael Hardt, Antonio Negri, Empire. Die neue Weltordnung, Frankfurt/New York 2002, p. 223: "Se non c’è più un luogo che possa valere come "fuori", allora dobbiamo essere contro in ogni luogo".

[10] Vedi: Gilles Deleuze / Félix Guattari, Tausend Plateaus, Berlin 1992, p. 524

[11] Vedi: Gilles Deleuze / Félix Guattari, Tausend Plateaus, Berlin 1992, p. 578; Michael Hardt, Antonio Negri, Empire. Die neue Weltordnung, Frankfurt/New York 2002, p. 419

[12] Vedi: Gerald Raunig, Wien Feber Null. Eine Ästhetik des Widerstands, Vienna 2000, pp.40-45

[13] Vedi il mio concetto "Spacing the Line", p.e. Gerald Raunig, Spacing the Line. Conflitto invece di armonia, differenza invece di identità, struttura invece di aiuto, in: Dürfen Sie das? Kunst als sozialer Raum, a cura di Eva Sturm e Stella Rollig, Vienna 2002.